Le rose di Atacama, Luis Sepúlveda



Le rose di Atacama è un libro di racconti tenuti assieme da un unico collante: la marginalità. Si tratta di storie marginali, come viene introdotto dalle primissime pagine, di storie lontane di cui nessuno abbia mai raccontato; questo libro dà voce a chi non ne ha e a chi non ha potuto averla, è un sommario di storie che albergano il mondo senza essere ascoltate, senza essere narrate. L'ho amato perché parla di vite che non fanno rumore, sebbene abbiano il peso del Mondo intero. E ho pensato, mentre lo leggevo, che nessun altro autore avrebbe potuto farlo meglio di Sepúlveda, perché forse il sentimento di marginalità è nato proprio là, nel sud del pianeta, mi piace pensare, ai confini dell'esistenza; in quell'acciughina che è il Cile dove era nato lui, un Cile schiacciato in quel poco spazio che gli concede l'Argentina: chiuso dalla catena andina, stretto dal deserto di Atacama, limitato dalla Terra del Fuoco dove la vita quasi svanisce e bagnato da un infinito Oceano. 


Non so se sia il libro giusto per celebrare Sepúlveda, ma questo mi è sembrato particolarmente speciale. Lo so, i libri di racconti non piacciono a tutti, forse o si amano o si odiano, c'è chi non apprezza l'assenza di una storia principale, c'è chi ha bisogno di addentrarsi in fitte trame, ma tutte queste storie riportano l'essenza di tutto ciò che ci circonda, mi sembra di non poter prescindere da queste storie ora che le conosco, mi sembra di non poter leggere altri racconti senza aver riflettuto su questi. 

Sono storielle, si penserà, in fondo Sepúlveda non è mica il primo che utilizza figure umili, ma qui c'è una scintilla nuova: l'autore de La gabbianella e il gatto non prende in prestito figure che si immagina possano appartenere alla vita marginale; lui ci balza dentro a quella vita perché è già lì, vi si intrufola, ricerca e scova quelle figure che sembrano tutto fuorché personaggi di un racconto; sono reali, tangibili, e sembra che ci parlino da vicino, che ci sussurrino all'orecchio. Sepúlveda ha incontrato quasi tutti i personaggi di questi racconti, ecco che cosa c'è di diverso: c'è che li ha guardati negli occhi, li ha osservati, li ha conosciuti, ha scambiato con loro sguardi e parole che valgono una vita intera, si sono scambiati qualcosa. E no, non si tratta di un narratore imparziale e invisibile che non lascia trasparire i propri giudizi, che lascia ai suoi lettori gli spazi e i tempi per poter trarre le loro conclusioni, no. Sepúlveda schiaffa sulla carta, senza timori, i suoi pensieri su questo mondo che non conosce giustizia, che non conosce pace, ma battaglie e tormenti. Le sue sono amare sentenze che si intrufolano nel racconto e ci fanno provare dolore, rancore, amarezza; parole che non si disperdono nel vento ma ci pungolano nel petto. Eppure queste non sono pagine di sofferenza, bensì di speranza; sono pagine che raccontano la resistenza di chi, nel proprio piccolo, nella propria quotidianità, sceglie. E con le proprie scelte cambia un pezzetto di mondo, accende una lucina, restituisce un briciolo di dignità al senso di esistere, ci ricorda che cosa vuol dire essere umani. 

E così lo scrittore ci parla di Lucas, un ragazzo argentino che si oppone alla deforestazione della Patagonia sopportando "minacce, pestaggi, arresti, diffamazioni"; ci parla del Profesor Gálvez, un insegnante di spagnolo di una piccola scuola di campagna nel sud del Cile, che dopo la morte del figlio dovuta ai postumi della dittatura si trasferisce ad Amburgo, e torna ad insegnare spagnolo ai bambini e a fare da paciere nelle liti fra esiliati; ci parla di Don Giuseppe, un emigrato italiano che lascia la sua patria per il sogno americano ma si ritrova in Cile, dove aprirà un emporio di alimentari e dove Sepúlveda trascorse l'infanzia. Ci narra anche dei cavatori e del loro instancabile lavoro, di un gatto nobile compagno (il suo gatto Zorba che ispirerà poi il suo più celebre racconto), di un cantante cecoslovacco conosciuto nel Sessantotto in Argentina e che si sacrificò durante l'invasione sovietica, di un amico fedele che vive una vita semplice e dignitosa nel suo insopportabile dolore. 

Le rose di Atacama è un testo che mi piace spesso riprendere in mano, anche solo per rileggerne qualche racconto, per cercare di ricordare di non dimenticare, per cercare di ricordare che tutto, attorno a noi, ha una lunga storia da conoscere e preservare; è un libro che mi ricorda la dignità della gente, di chi c'è ma non si vede, di chi con i propri gesti lascia una piccola meravigliosa impronta nel mondo. 
"Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia", è questo che Sepúlveda lesse un giorno in visita al campo di concentramento di Bergen-Belsen, e quelle parole gli si appiccicarono addosso accompagnandolo in ogni strada del pianeta. Questo stesso effetto hanno i racconti del libro, ci svegliano da quel torpore che ci fa apparire la vita qualcosa di scontato, di dovuto, normale, ma la vita è imprevedibile, ingiusta; eppure, chi riesce a vincere la rassegnazione è in grado di creare speranza. 

Non so se sono riuscita nel mio intento, ma spero che questo articolo sia un piccolo omaggio ad uno scrittore scomparso da poco, che nella sua essenzialità e naturalezza ci ha regalato memorabili storie segnate da dolcezza e saggezza. Sepúlveda non ha solo raccontato degli umili, è stato uno di loro ed è stato insieme a loro. Ha scelto come suoi protagonisti gli animali più impensabili, dando voce a lumache e balene, e ha parlato di chi vive ai confini dell'esistenza umana dimenticato da tutto e da tutti, ricordandoci che l'invisibilità non nega l'esistenza, anzi la fortifica.  
Sepúlveda ha fatto della sua resistenza una ragione di vita; è sopravvissuto alla dittatura cilena portando sempre con sé e con la sua dose di fortuna, nella sua sacca di esule e viaggiatore, il ricordo della sua esperienza che ha presto scoperto di condividere con tanta gente. Ha fatto della resistenza un semino da continuare a piantare e a spargere ovunque nel Mondo, affinché l'oblio non cancelli le ultime tracce di chi vive tacendo, ma con mani e pensieri plasma la vita e quella dell'umanità intera. Affinché la loro resilienza sia il segno della vita che continua, come quelle rose del deserto di Atacama che tornano a fiorire una volta all'anno per qualche ora, con forza e persistenza. Così Sepúlveda lascia una traccia indelebile, memoria di qualcosa che c'è, che c'è stato e che continuerà ad abitare il Mondo.


" Ci vediamo ogni due anni, ma la distanza e il tempo non ha alcuna importanza, perché ho la certezza che in un posto lungo la costa cilena mi aspettano una casa circondata da gerani e, in mezza a tanta spazzatura universale, la dignità della gente che si guadagna davvero il pane che mangia."





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